lunedì 21 maggio 2007

USA. Quale democrazia?

di Leonardo Pegoraro

“Negli Stati moderni il cosiddetto
sistema democratico è di solito
monopolizzato dalla borghesia
ed è divenuto null’altro che uno strumento
per opprimere il popolo. Secondo il principio
della democrazia […], invece, il sistema
democratico è un bene comune del popolo
e non qualcosa che pochi individui
possono appropriarsi” (Sun Yat-Sen).


Analizziamo, sia pure per sommi capi, quanto le affermazioni dell’ideologia liberale e della sua vasta schiera di pensatori siano in contrasto non solo alla pratica realizzata dagli Stati cosiddetti “democratici”, ma persino contraddittorie a quei principi tipici del liberalismo stesso. È su quest’ultimo aspetto che porremo maggiore attenzione, osservando con occhio critico soprattutto gli USA in quanto ritenuti, pressoché unanimemente, un baluardo di grande democrazia e un modello da difendere, emulare ed esportare.
Iniziamo descrivendo quelle contraddizioni relative ai temi più caldeggiati dal liberalismo e argomentando e “vivacchiando” sui quali questa ideologia pretende di porsi all’avanguardia dell’interpretazione della volontà effettiva del popolo e del suo interesse generale. Non risulterà poi così ardua questa impresa che pure si pone come fine ambizioso quello di demolire (nei limiti che lo spazio mi consente) i fondamenti stessi dell’ideologia dominante borghese.

Un degno politologo (Pasquino[1]) che muove coerentemente i suoi passi sulle orme di Bobbio e Sartori, così scrive a proposito del voto democratico: “Nessuno vorrà più mettere in discussione che il voto democratico debba essere universale (cioè, esteso a tutti), uguale (cioè, tale che ogni voto conti quanto ogni altro)”[2].
Bene. Peccato però che questi tre eminenti liberali (e chi con loro), nel considerare gli USA un paese democratico, sottovalutino una enorme contraddizione: proprio nel paese d’oltre Oceano il voto non è né universale né uguale!

1. Perché negli USA il voto non è universale?

Ci aiuta a rispondere lo stesso Pasquino:
“Negli Stati Uniti continuano a esistere barriere informali, ti tipo legale e istituzionale, che spostano sui cittadini tutto il peso dell’esercizio del diritto di voto, imponendo difficili requisiti di iscrizione nelle liste elettorali, di residenza, di afflusso alle urne - poiché si vota in giorni lavorativi, in ore lavorative ( come, peraltro anche in Gran Bretagna )”[3]

Così molti statunitensi oltre ad essere ostacolati “nell’esercizio del diritto di voto” – cosa che rappresenta anche una violazione del principio del voto libero concepito come voto esente da costrizioni - ne sono oggettivamente privati. Questo perchè negli USA i cittadini devono iscriversi nelle liste elettorali: non sono automaticamente elettori, dal momento che l’acquisizione di tale diritto sta in un loro atto volontario. Così la registrazione nelle liste elettorali non è compiuta dallo Stato, ope legis, ma è esclusivamente a carico dell’elettore. Il risultato è che a farne le spese sono soprattutto i cittadini più poveri. E sul fatto che siano i ceti popolari quelli ad essere più riluttanti o che trovino maggiore difficoltà a sbrigare le pratiche burocratiche necessarie, converge una moltitudine elevata di politologi, sociologi e intellettuali più o meno liberali (americani e non).
In questo modo si può spiegare in larga misura il fenomeno dell’astensione dilagante che tocca una media superiore al 50% per le elezioni del Presidente e che addirittura risulta ancor più alta per le elezioni parlamentari[4]. Ecco spiegato perché non si possa parlare negli USA di voto universale. E a maggior ragione non se ne poteva certo parlare fino al vicino 1966; è solo in questa data infatti che due sentenze della Corte Suprema dichiararono incostituzionali sia i testi per accertare i gradi di cultura e di alfabetizzazione per l’ammissione ai diritti politici, sia i requisiti che chiedevano il pagamento di una tassa per essere ammessi al diritto di voto[5]. Ultime disposizioni, queste, di un retaggio tutto liberale: gli USA sono stati, specialmente a partire dall’indipendenza dall’Inghilterra, il più grande “Stato razziale” senza precedenti nella storia e l’orribile quanto originale connubio di un “apartheid razziale” - a cominciare dai pellerossa espropriati delle loro terre, deportati e barbaramente sterminati e dai neri deportati dall’Africa e schiavizzati - e di un “apartheid sociale” - nei confronti degli strati più poveri della stessa comunità bianca[6].

2. Perché negli USA il voto non è uguale?

Come sia difficile affermare ancor oggi che negli USA sia concretamente realizzato il principio del voto universale è già stato brevemente considerato. Passiamo ora al concetto di voto uguale.
Occorre qui ricordare che il suffragio nordamericano è di duplice grado, basato cioè su di un meccanismo indiretto di elezione. Il suffragio indiretto produce degli “inconvenienti” a detta persino degli stessi liberali, o almeno di quelli più accorti e più progressisti. Vediamo se sono inconvenienti su cui si può sorvolare o se stridono fortemente con la regola numero uno della democrazia: tutti i voti contano alla stessa maniera.
Risultando di maggior peso il voto degli elettori dei piccoli Stati possiamo già da subito affermare che il voto dei cittadini ha un valore diseguale. Ciò accade perchè a votare per il Presidente non sono direttamente i cittadini ma i cosiddetti “elettori presidenziali”, spettanti in egual numero a ciascuno Stato. Ed è proprio per questo meccanismo indiretto di elezione – e, come vedremo subito, per il sistema maggioritario - che può verificarsi anche che venga eletto il candidato che ha ottenuto un numero inferiore di voti popolari. Ciò è avvenuto nelle elezioni del 1876, 1888 e 2000. Infatti sette anni fa il candidato repubblicano Gorge W. Bush ha ottenuto 540.000 voti popolari in meno del candidato democratico Al Gore! Come se non bastasse, la sua elezione è stata imposta subito dopo la controversa vittoria nello Stato della Florida, con una decisione della Corte Suprema che ha impedito la verifica dei voti di questo Stato. Si è così violata anche quella basilare regola democratica secondo cui i voti vanno contati: quello di Bush è stato una sorta di golpe illegittimo.
Il sistema elettorale maggioritario Plurality (a turno unico e con collegio uninominale) rappresenta un’ulteriore violazione del principio del voto uguale. Infatti, dal momento che chi prende la maggioranza anche solo relativa dei voti di un collegio elettorale ne è l’unico rappresentante, accade che vi sia uno scarto altamente sproporzionato tra il numero dei seggi attribuiti al partito più votato e il numero dei voti da questo effettivamente conseguiti. Questo antidemocratico sistema elettorale oltre che dagli USA è utilizzato anche dal Regno Unito. Qui le elezioni parlamentari del 2005 hanno visto i laburisti conquistare la maggioranza assoluta dei seggi con appena il 35% dei voti. Ma il 35% di quelli espressi. Infatti se volessimo considerare tutti gli aventi diritto vedremmo che l’attuale governo di Blair è stato votato solo dal 20% della popolazione inglese! In media, ogni deputato laburista è stato eletto con 26.877 voti, quello conservatore con 44.251 voti e i liberaldemocratici hanno avuto bisogno addirittura di 99.378 voti per deputato. Alla faccia del principio del voto uguale secondo cui tutti i voti devono contare alla stessa maniera!

3. Le democrazie liberali e le democrazie elettorali secondo Diamond

Il liberale Diamond distingue:

“tra democrazie liberali nelle quali: a) i diritti civili e politici sono riconosciuti e tutelati; b) viene rispettato il governo della legge (rule of law); c) la magistratura è indipendente e sono indipendenti molte autorità amministrative; d) si è sviluppata una società pluralista e vivace con mezzi di comunicazione non soggetti a controllo governativo; e) i civili esercitano il controllo sui militari, e le democrazie puramente elettorali, dove certamente si vota, ma dove uno o più di questi principi non sono rispettati e vengono frequentemente violati”[7].

È chiaro così che, quando ci si imbatte in quest’ultimo caso, ci si trovi in presenza di Stati i quali solo nominalmente possono definirsi democratici. Ovviamente, dal punto di vista di Diamond, l’Europa occidentale e i paesi anglofoni sono senza ombra di dubbio democrazie liberali. In realtà questa distinzione apportata da Diamond ci aiuta a mettere in luce che negli USA i principi sopra elencati sono tutt’altro che rispettati e che dunque siamo di fronte ad una democrazia puramente elettorale. Per quanto concerne il primo punto, abbiamo già visto con la violazione del principio del voto universale e uguale quanto non si possa affermare tout court che negli USA i diritti civili e politici sono tutelati. Così come, tra i tanti altri esempi che si potrebbero apportare, non viene riconosciuto nessun diritto ai “sospetti combattenti nemici” rinchiusi senza processo a Guantanamo, un vero e proprio campo di concentramento dove si pratica diffusamente ogni tipo di tortura. Sarebbe sufficiente la violazione del primo punto appena dimostrata a fare degli USA una democrazia elettorale - almeno nell’accezione indicataci da Diamond. Ma, per fugare ogni dubbio, consideriamo anche il secondo punto indicato sopra: è sufficiente pensare, a seguito dello stato d’eccezione decretato dopo l’11 Settembre 2001, ai poteri straordinari attribuiti a Bush come “comandante in capo” o ancora alle leggi liberticide ( Patriot Act ) per capire che non vi è una vera e propria subordinazione del potere esecutivo a quello legislativo e che dunque non viene rispettato il governo della legge. Come, relativamente al terzo punto, non possiamo nasconderci dietro un dito e non vedere che anche il potere giudiziario è subordinato a quello esecutivo: pensiamo solo al braccio di ferro tra governo e Corte Suprema sul caso Guantanamo. Continuando, sarebbe da chiederlo a Noam Chomsky cosa ne pensa a proposito del terzo punto e sulla presunta libertà di stampa, parola ed espressione vigente nel suo paese, visto che questo grande glottologo e scrittore è costretto a pubblicare i suoi libri oltre i confini degli USA a causa dei suoi scomodi giudizi sulla società politico – economica statunitense. O ancora basta prendere la classifica di Reporter senza frontiere e leggere che, su 168 paesi, gli USA, per quanto concerne la libertà d’informazione, si collocano al 53mo posto condividendo l’imbarazzante compagnia di Tonga, Croazia, Botswana. Difatti:

“Le corti federali - in controtendenza con la giurisprudenza delle corti supreme di 33 Stati - rifiutano di riconoscere ai giornalisti il diritto di proteggere le proprie fonti, anche in procedimenti che con il terrorismo non hanno nulla a che fare. […] Josh Wolsh, giornalista freelance con un blog molto seguito, è stato sbattuto in prigione per essersi rifiutato di consegnare il suo archivio video digitale. Sami al-Haj, cittadino sudanese, cameraman dell'emittente araba al-Jazeera, è rinchiuso nel lager di Guantanamo dal giugno del 2002, bollato come combattente nemico e nessuna specifica accusa formulata contro di lui. Bilal Hussein, fotografo dell'Associated Press, è detenuto dall'aprile di quest'anno [ del 2006, ndr ] senza nessun altra spiegazione che un cognome inviso all’amministrazione”[8].

Infine, analizzando l’ultimo punto, non si direbbe certo che i civili siano esenti dalle pressioni dei militari considerando il peso che questi e le potenti lobby della guerra sono venuti ad assumere, specie alla luce delle ultime azioni belliche. A mero titolo esemplificativo, si pensi solo al fatto che, per quanto concerne la politica estera, Gli USA spendono per la difesa il doppio dell’insieme degli altri membri della NATO. Che la California, “dove sono collocate le industrie missilistiche, le industrie dell’aviazione militare ed elettroniche”, vive in gran parte sul bilancio militare degli Stati Uniti”[9] e che “la sola economia” di questo Stato “è più grande di quella Cinese”[10]. D’altro canto non è un segreto, per dirla con Paul Kennedy, che “tutte le altre Marine del mondo messe insieme non potrebbero minimamente intaccare la supremazia militare americana”. Anche volendo considerare la politica interna si arriva alla stessa conclusione: sono le lobby militari che dettano le regole ai civili e non il contrario. Un esempio? Di fronte alla strage della Virginia Tech (“il più grave massacro della storia americana”: 32 studenti e professori uccisi da un allievo ventenne), Bush “ha fatto sapere di essere ‘inorridito’ da quanto accaduto” ma ha confermato subito - e cinicamente - la sua ferma “intenzione di non mettere mano alle leggi che regolano la vendita di armi nel paese”. Come dire: “pietà per le vittime della Virginia Tech, ma ancora di più rispetto per la lobby dei fabbricanti di armi”. Insomma “non c’è strage in grado si far cambiare idea al presidente degli Stati Uniti”[11].

Va da sé che, secondo lo schema fornitoci da Diamond, non siamo di fronte ad una democrazia liberale. Ci troviamo dunque di fronte ad una democrazia puramente elettorale? Sì. Ma aggiungerei anche che gli USA, considerate le violazioni di quei principi basilari della liberal-democrazia relativamente ai concetti di voto uguale e universale, si caratterizzano come una pessima democrazia elettorale. Ossia il paese d’oltre Atlantico, democratico per antonomasia, si rivela un regime pessimo persino sul piano meramente formale.

4. “Governo unitario imperiale” e “governo diviso corrotto”

A seconda che il Presidente abbia la maggioranza o la minoranza dei parlamentari del suo partito in entrambi i rami del Congresso si è soliti dire che vige, rispettivamente, un governo unitario o un governo diviso. Il primo caso, grazie anche alle carenti indicazioni costituzionali relativamente al ruolo e ai poteri del Presidente, è sicuramente esemplificato dalla Presidenza del democratico L. Johnson (1963 – 1968) e, soprattutto, del repubblicano R. Nixon (1968 – 1974). Il rafforzamento del ruolo della Presidenza - già avviato da A. jackson (1829 – 1837), A. Lincoln (1861 – 1865), T. Roosevelt (1901 – 1909), W. Wilson (1913 – 1921) e F. Roosevelt (1933 – 1945)[12] – ha finito col prevaricare in più occasioni il Congresso e l’opinione pubblica. Ed è proprio contro questo pericolo che lo storico M. Schlesinger, consigliere di Kennedy, scrisse il famoso libro “La presidenza imperiale”[13].
Mentre nel caso del governo diviso il Presidente si trova a fare i conti con una maggioranza dell’altro partito in uno o in entrambi i rami del Congresso, come è avvenuto per 26 anni su 32 dal 1968 al 2000. Ciò determina necessariamente l’indebolimento dell’esecutivo. Così il Presidente, per superare l’empasse politico–istituzionale, si trova costretto a praticare una sequenza di procedimenti di negoziazione con il Congresso e con i suoi dirigenti. Questi procedimenti consistono in tutta una serie di pratiche clientelari e localistiche con la concessione, da parte del Presidente, “di benefici/vantaggi selettivi ai senatori e ai rappresentanti che hanno maggiore potere o influenza in modo da ottenere l’esito sperato. Il conto […] lo pagherà il contribuente poiché le operazioni clientelari hanno evidentemente dei costi”[14]. Insomma, parte delle tasse pagate dagli americani servono alla governabilità del paese. Come se, colpevoli, dovessero pagare il fatto di non aver consegnato un governo unitario alla classe dirigente.
Il governo diviso comporta altri “inconvenienti”: i cittadini non sono in grado di capire chi ha promosso determinate politiche piuttosto che altre proprio perché le responsabilità dei diversi organi appaiono appannate. È doveroso ricordare che ciò vale anche per l’elettore più interessato e più informato! Viene così colpito un altro principio democratico: l’accountability, ossia il dovere, da parte del governante, di rendere conto all’elettorato quello che è stato fatto e quello che è stato omesso.
Non c’è dubbio: siamo in presenza in un caso di un governo unitario imperiale, che fa del Presidente e dei collaboratori da lui scelti gli uomini più potenti del pianeta, e nell’altro di un governo diviso corrotto che fa della corruzione una pratica quotidiana volta a consentire alla classe dominante di esercitare il suo potere senza troppi impedimenti.

5. Il sistema politico, i gruppi di pressione (lobby) e la personalizzazione della politica

In nessun paese i politici formano nella nazione un clan così isolato e potente come nell'America del Nord. Quivi ciascuno dei due grandi partiti che si scambiano a vicenda il potere, viene esso stesso regolato da gente che fa della politica un affare, che specula sui seggi [...], si nutre dell'agitazione per il proprio partito e dopo la vittoria di questo viene ricompensato con dei posti. [...] Qui non esiste né dinastia, né nobiltà, né esercito (a parte un piccolo nucleo di soldati addetti alla vigilanza dei pellirossa), né burocrazia con impieghi stabili e diritto a pensione. Abbiamo due grandi rackets di speculatori politici che si alleano per impadronirsi ed avvicendarsi al potere dello Stato, e lo sfruttano con i mezzi più corrotti e per i fini più rivoltanti. La nazione è impotente contro questi due grandi cartelli di politicanti che pretendono di essere al suo servizio ma in realtà la soggiogano e la saccheggiano."
(F. Engels)
“Si rivela una coincidenza pressoché generale fra gli scrutini maggioritari a turno unico e il bipolarismo: i paesi dualisti sono maggioritari e i paesi maggioritari sono dualisti”[15]. Infatti negli USA vige il sistema elettorale maggioritario e il sistema politico è bipartitico: il partito repubblicano e quello democratico. Ma, contrariamente a quanto si possa pensare, entrambi i partiti sono fortemente deboli. Non sono partiti di massa e non sono portatori di un marcata ideologia. I politici dell’uno e dell’altro partito spesso si distinguono difficilmente sul piano ideologico. Il partito lascia molto “liberi” i propri componenti che sono così portati a votare secondo la loro coscienza o interesse individuale. Sono partiti di quadri (come direbbe Duverger) o partiti di notabili (come direbbe Weber) fatti per l’appunto da notabili, tecnici, finanziatori che si attivano solo nei giorni delle elezioni. A differenza dei partiti di massa che vivono di tesseramenti, attività collaterali e, quando c’è, di finanziamento pubblico, quelli statunitensi sono finanziati da privati e per lo più dai gruppi di pressione. Non a caso i cosiddetti Congressmen (i parlamentari) sono sempre confermati nella carica nelle successive elezioni (con una percentuale del 90%). Ciò, è superfluo precisarlo, si verifica dal momento che questi promuovono politiche atte a “ricambiare il favore” alle lobby che hanno sostenuto la loro campagna elettorale innestando così un circolo vizioso che consente sempre agli stessi di occupare la “poltrona”.
È chiaro: le lobby esercitano un peso indiscutibilmente decisivo nella scelta dei governanti.
Così questi due partiti si rivelano in realtà un insieme atomizzato di politici che assume spesso - specie nel caso del governo diviso – le sembianze di un unico partito. Un grande partito di centro diviso storicamente in due tronconi, il quale, di fatto, non permette l’ingresso nell’arena/mercato della competizione partitica a organizzazioni nuove. Siamo in presenza di due tipi di “partito cartello”[16] che, rispecchiando il sistema economico oligopolistico sul piano politico, hanno stipulato o stipulano di volta in volta un accordo per limitare la concorrenza di altre eventuali forze partitiche - che pure , sulla carta, hanno il diritto di esistere e di partecipare alle elezioni.
Inoltre, dobbiamo considerare che in campagna elettorale risultano decisivi non solo la quantità di denaro che ciascun candidato e ciascun partito possono raccogliere e profondere nella ricerca dei voti ma anche le possibilità di accesso alla propaganda televisiva. Ciò contribuisce di certo a fomentare quel fenomeno che prende il nome di personalizzazione della politica. Questo è un fenomeno che si sta diffondendo a macchie di leopardo e sempre con più intensità anche nel resto dell’Occidente. Cosa significhi la personalizzazione, la spettacolarizzazione e, per usare una sola parola che contenga in sé entrambi i significati delle precedenti, l’americanizzazione della politica è presto detto:

“[essa] incoraggia la politica delle celebrità contro la politica delle iniziative di policy, dei programmi e dei principi che trova espressione in partiti politici che cercano di promuovere l’interesse pubblico[…]. Gli imprenditori, i ricchi, i personaggi televisivi, gli attori, i lottatori, i clowns, i quali attirano l’attenzione dei media sfidando i partiti e distraendo gli elettori, raggiungeranno probabilmente i vertici, diminuendo così la qualità del dibattito politico”[17]
È indubbio che la personalizzazione della politica metta in primo piano le qualità personali e fisiche della persona che va a candidarsi e non certo le sue idee politiche, il suo programma. Gli esempi sono tanti: (considerando la categoria degli attori) i più noti vanno da Ronald Wilson Reagan, Governatore dello Stato della California e poi 40° Presidente degli Stati Uniti d’America (1981 - 1989) fino a Arnold Alois Schwarzenegger, attuale Governatore della California. Ma voglio riportare un fatto curioso che ci mostra quanto la politica possa essere svilita e toccare il fondo. Siamo in Inghilterra. Nel corso della sua campagna elettorale, quello che verrà poi eletto a sindaco di Hartlepool, indossa un costume da scimmia, lo stesso della mascotte della locale squadra di calcio[18]!

6. Apologia e stigmatizzazione dell’apatia e dell’indifferenza: Huntington versus Hegel

S. Huntington, celebre per la sua teoria delle ondate di democratizzazione e di riflusso degli Stati (dal 1828 al 1975) ampiamente condivisa dagli altri autori liberali e per le sue tesi di “scontro di civiltà” tra Islam e Occidente, non è invece altrettanto noto per aver dichiarato che le dimostrazioni di piazza e di protesta sono pericolose per l’ “ordine democratico”. Questo liberale si spinge oltre: “la gestione efficace di un sistema democratico richiede in genere un certo livello di apatia e di non partecipazione da parte di alcuni individui e gruppi” [19]. Siamo di fronte ad una vera e propria apologia dell’apatia e dell’indifferenza delle masse - o di una loro parte, magari meglio, come negli USA, se consistente - giustificata come mezzo indispensabile per la democrazia. Come dire: meno democrazia per la democrazia. Una contraddizione su cui non si può certo sorvolare; specie se ad affermare ciò è un esponente emerito di una ideologia che si considera l’indiscusso tutore della democrazia e della rappresentatività popolare. Non sembrano però essere di questo avviso i liberali che lo citano con tanto di elogi (tra cui Pasquino[20]). D’altro canto abbiamo già visto quanto essi siano dei veri maestri nell’edulcorare quegli aspetti più ambigui (per usare un eufemismo!) della loro ideologia.
Così possiamo osservare che l’apologia dell’indifferenza e dell’apatia è un aspetto che, più o meno esplicitamente, sembra permeare l’ideologia liberale, nonostante ufficialmente questa preferisca, quando può, mostrarsi con tutt’altra veste.
Perché vi sia un certo grado di apatia tra la popolazione è necessario (anche se non sufficiente) che tra questa sia ampiamente diffusa l’dea che il popolo sia un mero e indistinto aggregato di persone private. Contro questa tesi si era già scagliato Marx spiegando che considerare l’uomo come un “uomo generico” avulso dalla realtà storica e sociale in cui vive è solo un’astrazione mistificante. Aveva capito che non è l’uomo a fare la storia ma sono gli uomini reali storicamente determinati e organizzati in classi a costituirne il motore che la muove. Ma voglio ricordare che, ancor prima di Marx, è stato Hegel a criticare e definire irrazionale quella concezione liberale che dissolve la concreta articolazione della società civile in “una moltitudine di individui”. In un ammasso di singoli atomi slegati l’uno dall’altro. Scagliandosi così contro un modo di intendere lo Stato nel quale la volontà del singolo scompare nell’anonima moltitudine di individui privi di ogni significato politico, Hegel ha voluto sottolineare che, per evitare che l’elezione dei deputati si riduca a “qualcosa di superfluo o a un “giuoco”, essi devono essere considerati non come “rappresentanti di singoli, di una moltitudine, ma rappresentanti di una delle sfere essenziali della società, rappresentanti dei suoi grandi interessi”. Così il rappresentare non ha il “significato che uno sia in luogo di un altro, ma al contrario è l’interesse stesso ad essere realmente presente nel suo rappresentare”[21]. Ma dal momento che ciò non si verifica, la partecipazione politica attraverso l’istituto del voto si riduce alla fittizia possibilità di esprimere un’opinione, una volta ogni qualche anno, in mezzo a una moltitudine di voti. A tal proposito così continua Hegel:

“Circa l’elezione mediante i molti singoli si può […] osservare che in particolare nei grandi Stati sopraggiunge necessariamente l’indifferenza verso il dare il proprio voto, in quanto esso, nella moltitudine quantitativa, ha un effetto insignificante; e che gli aventi diritto al voto, per quanto questo diritto venga loro vantato e presentato come qualcosa di elevato, non si presentano appunto a votare; - sicchè da tale istituto segue piuttosto il contrario della sua destinazione, e l’eleggere cade in potere di pochi, di un partito, e quindi di quel particolare accidentale interesse che […] avrebbe dovuto essere neutralizzato”[22].

Non possiamo certo non accorgerci di quanto siano ancora attuali queste parole. Sembrano scritte per descrivere la realtà statunitense odierna. E direi che non c’è motivo di aggiungere altro. Ci tengo però a precisare che in queste affermazioni non si deve leggere un’ostilità nei confronti dell’estensione del suffragio, ma piuttosto la critica di quella concezione astratta tutta liberale che conduce irrimediabilmente a sancire (e perseguire) la separazione della vita civile da quella politica. In più parafrasando le parole del filosofo tedesco possiamo cogliere anche la sua volontà di mettere in guardia da una semplicistica e mistificatoria identificazione di “elezioni” e “democrazia”- spesso ancor’oggi utilizzata a fini puramente propagandistici. Ora è facile comprendere quanto, i più ortodossi mi perdoneranno il paragone, il pensiero di Hegel muova in una direzione diametralmente opposta a quello di Huntington. Infatti mentre il primo, stigmatizzando l’indifferenza, fa della democrazia un fine conferendo un significato sostanziale e autentico a questa parola, il secondo teorizza e giustifica l’apologia dell’apatia riducendo così il concetto stesso di democrazia ad un mero mezzo per legittimare la classe dominante e la sua leadership politica. La democrazia da contenuto a forma, da fine a mezzo.

7. La Herrenvolk democracy.

Possiamo così affermare che:

“il sistema cosiddetto ‘democratico’ vigente in USA e in Europa può accostarsi, per molti apsetti, alla pratica ateniese, dove una élite proveniente dai ceti mercantili e industriali […] dirige la cosa pubblica facendosi periodicamente legittimare dalle masse”[23]

“...Ciò che soprattutto mi piace di Mussolini è che egli dice al popolo la verità spiacevole quando l'occasione si presenta, invece di dipingere un fantasma di prosperità “just around the corner”. Sono rimasto ammirato dal modo come concepisce e risolve i maggiori problemi del giorno. Ammiro Mussolini per la resurrezione dell'Italia e per la restaurazione del suo prestigio all'estero. Mussolini deve passare alla storia non soltanto come restauratore delle fortune della sua Patria, ma anche come il costruttore di una migliore forma di convivenza tra i popoli”. (Franklin D. Roosvelt)
«...Il genio romano è impersonato da Mussolini, il più grande legislatore vivente. Egli ha pensato esclusivamente al bene duraturo del popolo italiano come egli lo concepiva, e null'altro al di fuori di quel bene ebbe veramente importanza per lui... Se fossi italiano sono sicuro che sarei del partito di Mussolini».(Winston S. Churchill )
Le elezioni e la “numerazione dei ‘voti’”nei paesi capitalistici devono essere infatti ancor oggi intese non come un mezzo che il popolo utilizza periodicamente per scegliere l’élite dirigente quanto piuttosto come “la manifestazione terminale di un lungo processo in cui l’influsso massimo appartiene” all’élite già al potere. Quest’ultima, tramite le elezioni e il conteggio dei voti, misura la propria “efficacia” e la propria “capacità di espansione e di persuasione” tra le masse, dal momento che è essa stessa il “centro di formazione, di irradiazione, di diffusione” delle “idee” e delle “opinioni”, le quali “non ‘nascono’ spontaneamente nel cervello di ogni singolo”[24] come vuole invece la vulgata borghese. In conclusione, guardando allo Stato d’oltre Atlantico, ci troviamo di fronte ad un regime, caratterizzato da discriminatorie clausole d’esclusione, che si presta bene alla qualifica di dittatura borghese o, se si preferisce, di “Herrenvolk democracy”, ossia una “democrazia per il popolo dei signori”. Secondo un’idea, per l’appunto quella di “Herrenvolk”, cara anche al nazismo. Vorrei infatti ricordare, a tal proposito, l’ammirazione di Rosemberg e di Adolf Hitler per la “teoria” e la “pratica razziale [entrambe di matrice indiscutibilmente liberale, N.d.T.] del sud degli Stati Uniti e, più in generale, per la tradizione coloniale dell’Occidente” [25]. Così non deve stupirci che il costruttore di automobili Henry Ford, ancora oggi considerato negli USA un esempio di grande industriale moderno, con il suo “The international Jew” (L’ebreo internazionale), abbia ispirato fortemente Hitler. Le parole di quest’ultimo sono inequivocabili: “Noi consideriamo Henry Ford come il leader del movimento fascista in ascesa in America”. Hitler gli rende omaggio nel Mein Kampf, dove “le idee espresse in The international Jew sono onnipresenti, e non mancano i passaggi trascritti quasi alla lettera”, e nel suo ufficio privato. In una parete vi è infatti appeso un grande ritratto dell’industriale americano e sul tavolo vi sono sparse numerose copie del suo libro[26].
Veniamo ai giorni nostri. Inaugurando il suo primo mandato presidenziale, “dopo aver ricordato il patto intercorso tra ‘i nostri padri fondatori’ e ‘l’Onnipotente’, Clinton sottolinea: ‘La nostra missione è senza tempo’”[27]. Queste parole e quelle di Bush, che, nel corso della campagna elettorale, proclama: “La nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo”[28], non sembrano distinguersi poi molto da quelle di Ford: “la razza ‘anglosassone’, ‘ariana’, ‘bianca ‘europea’ o ‘anglosassone-celtica’, che nel suo sangue porta la civiltà e ha attraversato l’Oceano per fondare l’America: ‘Sono il popolo dominante (the Rulling people) che nel corso dei secoli è stato scelto per regnare sul mondo’”[29].

8. Saperne di più.

Quanto detto fin qui non può certo considerarsi una esauriente e completa critica agli USA e a molti luoghi comuni dati oggi acriticamente per scontati e dunque per veri. Vuole piuttosto essere un contributo capace almeno di mettere al lettore qualche serio dubbio su quanto comunemente si sente affermare, pressoché all’unanimità, dai mezzi di comunicazione di massa e, influenzata e indirizzata da questi, dalla maggior parte della gente con cui si trova a vivere e a condividere pensieri, idee, letture, esperienze. A tal proposito non possiamo non ricordare un grande detto di Hegel: “Ciò che è noto, proprio perché è noto, non è conosciuto. Nel processo della conoscenza, il modo più comune di ingannare sé e gli altri è di presupporre qualcosa come noto e di accettarlo come tale”[30].
Credo che ora, e mi avvio alla conclusione, si possa fare una breve precisazione di carattere etimologico, dicendo che, a mio avviso, sono da attribuirsi due significati principali alla parola democrazia. Questo termine di derivazione greca significa infatti: 1) governo del e dal popolo; e 2) governo per il popolo. Dovrebbe ormai essere chiaro che abbiamo fin qui focalizzato l’attenzione sulla prima accezione di questo concetto. Infatti se avessimo voluto analizzare la seconda accezione del termine avremmo dovuto mettere in luce quali contraddizioni sostanziali e di mero effetto pratico attraversano la realtà sociale statunitense, ossia quelle che riguardano direttamente le politiche dei governanti che ricadono sui governati. In più, se si volesse condurre un’analisi completa, questa non potrebbe definirsi tale se evitasse di osservare almeno le più grandi contraddizioni relative ai rapporti che gli USA hanno egemonicamente instaurato (e che continuano imperterriti a imporre) nei confronti degli altri Stati nazionali, ovvero degli altri popoli che abitano il pianeta. Stracciando di fatto il diritto all’autodeterminazione dei popoli, alla loro sovranità nazionale e, in ultima analisi, alla vita. Allo stesso modo si incorrerebbe in un errore di natura macroscopica se non si considerassero altre contraddizioni. Si pensi ad esempio, prime fra tutte, a quelle relative ai rischi ambientali causate proprio da quel sistema capitalistico e dalle sue crisi - di natura endogena - che l’ideologia liberale continua aggressivamente a difendere, ricorrendo alla guerra preventiva e permanente. La guerra, a sua volta, non fa che peggiorare drasticamente la salute del nostro pianeta, innescando così un circolo vizioso catastrofico. Ma l’ideologia qui oggetto di critica, coprendosi gli occhi e auto-illudendosi e auto-convincendosi del contrario (espressione, questa, della sua cosiddetta “falsa coscienza”e di una tendenza alla rimozione che la caratterizza da sempre), nega l’esistenza di questi “problemi” o, riconoscendoli ma limitandone la portata, non vuole prendere minimamente in considerazione che essi non si possono risolvere se non alla radice: mettendo cioè in discussione e sovvertendo l’intero sistema che li produce e quindi, in ultima analisi, i rapporti di potere e di classe esistenti.

[1] Pasquino è professore di Scienza politica nell’ Università di Bologna. Nel corso del saggio ho voluto, fra i tanti che si sarebbero potuti prestare a questo compito, fare riferimento a questo autore in quanto, a mio avviso, rappresenta appieno il pensiero liberale. Date le sue posizioni possiamo considerarlo un cosiddetto liberale di “sinistra”. Sarà proprio il suo “progressismo” che ci consentirà di evidenziare diverse contraddizioni (che io credo essere insanabili se non cambiando radicalmente il sistema capitalistico che le origina): spesso farò in modo che siano le sue stesse parole a mettere in luce alcuni “difetti” e “inconvenienti” presenti negli USA (e qui sta il suo essere “progressista”), che pure continua a considerare una grande democrazia (e qui sta il suo essere liberale).
[2] Pasquino (2004), p. 130.
[3] Ibidem.
[4] Nelle elezioni presidenziali va a votare meno del 50 per cento degli aventi diritto, quindi il presidente USA rappresenta a malapena un americano su quattro. Nelle altre consultazioni le cose vanno molto peggio: i votanti nelle elezioni dei singoli Stati sono il 35-40 per cento, in quelle di contea e municipali addirittura il 25-30 per cento. Sissignori, nel santuario della democrazia ci sono anche “maggioranze” che rappresentano meno del 13 per cento della popolazione.

[5] Losurdo (1997) e Adams (1965), p. 121.
[6] Losurdo (2005), p.113.
[7] Diamond, cit. in Pasquino (2004), p. 312-313.
[8] Ro.Re (2006).
[9] Mandel (1969) p. 76.
[10] Kupchan, cit. in Azzarà (2006).
[11] D’agnolo Vallan (2007).
[12] Cfr. A. Lucarelli (2000), p. 219 ss.
[13] Cfr. A. M. Schlesinger (1973).
[14] Pasquino (2003), p.118.
[15] Duverger (1961), p.267.
[16] Cfr. Katz, Mair (1995) pp. 5-28.
[17] Jones, Williams, cit. in Caciagli, Di Virgilio, p.118 .
[18] Caciagli, Di Virgilio, p.119.
[19] Huntington, cit. in O. Boiral (2003).
[20] Pasquino (2004), p. 321.
[21] Hegel (1997), p. 444-445
[22] ibidem
[23] Canfora (2002) p. 36.
[24] Gramsci (1974) p. 111.
[25] Losurdo (2005) p. 333 e Losurdo (2002).
[26] Lowy, Varikas (2007); vedi anche Losurdo (2007) p. 115-118.
[27] Losurdo (2007) p. 105.
[28] Bush, cit. in Losurdo (2000) e in Losurdo (2007) p. 106.
[29] Ford, cit. in Lowy (2007).
Anche le parole di Blair si muovono sulla stessa lunghezza d’onda: “Questo nostro paese è benedetto, gli inglesi sono speciali. Il mondo lo sa e anche noi, nel nostro intimo lo sappiamo. Questa è la più grande nazione sulla terra ed è stato un onore servirla.” (Corsivo mio; Tony Blair, dal discorso di congedo dalla carica di Primo ministro, Trimdon Labour, 10 Maggio 2007).
[30] Hegel, cit. in Losurdo (2005) p. 29.


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